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Riccardo Pallotta

Diritto e Realtà: un difficile rapporto

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Postilla » Diritto » Il Blog di Riccardo Pallotta » Rapporto di lavoro » La nuova disciplina del lavoro a termine: occasione da non perdere o inutile deregulation?

27 marzo 2014

La nuova disciplina del lavoro a termine: occasione da non perdere o inutile deregulation?

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Dopo l’annuncio del 12 marzo al termine del Consiglio dei Ministri, il 20 marzo 2014 è finalmente approdato in Gazzetta Ufficiale il D.L. 34/2014 che – tra l’altro – innova profondamente la disciplina del rapporto di lavoro a termine.

Non è questa la sede per una puntuale disamina delle modifiche introdotte dall’art. 1 del D. L. 34/14 al D. Lgs. 368/01 che – peraltro – presumo nota ai lettori dei blog di “Postilla” (semmai, mi sia consentito il rinvio ai molteplici articoli pubblicati nei giorni scorsi, anche a mia firma, sul Quotidiano IPSOA).

Quello che – invece – vorrei, è sollecitare una discussione sulla “logica” e sull’approccio socio-economico sotteso a queste modifiche. Se, cioè:
1) il passaggio alla integrale acausalità dei rapporti
2) l’ampliamento senza sostanziali vincoli fino a 8 possibili proroghe del contratto nel triennio
3) la possibilità di coprire fino al 20% dell’organico di un’azienda con personale assunto con contratto a termine rappresenterà un volano per la lotta alla disoccupazione consentendo alle aziende di affrontare con maggiore flessibilità le esigenze di mercato, ovvero se – come da altri affermato – non essendovi, ad esempio, certezza del fatto che i rapporti a termine intercorreranno per l’intero triennio tra le stesse parti (dipendente e datore di lavoro), le modifiche normative si sostanzino in una “deregulation selvaggia” che renderà ancora più precaria la situazione occupazionale italiana, senza fornire alcuna certezza in merito all’aumento della occupazione cosiddetta “buona” (ossia duratura).

In via del tutto personale, tendo a “temere” il verificarsi di questa seconda opzione perché “l’esperienza insegna”.
Il tutto, calando un pietoso velo sulla tecnica legislativa seguita dal Governo: tecnica che, oltre ad aver lasciato alcuni “buchi” nel tessuto normativo generale, ha fatto sì che oggi nell’ordinamento italiano vi sia una norma (l’art. 1 del D.lgs. 368/01), che al suo primo comma afferma che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” e poi, nel comma successivo, disciplina il contrario, ossia la corposa e totale deroga triennale a tale “regola generale”.

Letture: 13306 | Commenti: 3 |
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3 Commenti a “La nuova disciplina del lavoro a termine: occasione da non perdere o inutile deregulation?”

  1. Andrea scrive:
    Scritto il 27-3-2014 alle ore 23:32

    Condivido con lei che la nuova disciplina del lavoro a termine non abbia a mio avviso una sottostante scelta di politica del lavoro, mi spiego, avrebbe potuto essere utilizzata come primo passo per agire sul Cuneo “contributivo” imponendo un costo aggiuntivo per tale tipologia di contratti a favore di una riduzione del costo dei contratti a tempo indeterminato, avrebbe altrimenti potuto essere una norma a tempo al fine di dare un impulso immediato in questa difficile fase sacrificando le tutele a nuovi posti di lavoro. Ma una norma di tale genere a regime non la vedo francamente come risolutrice ma anzi come dice Lei causa de stabilizzatrice del mercato del lavoro.

  2. Giulio Fedele scrive:
    Scritto il 28-3-2014 alle ore 12:47

    L’immagine, indimenticabile e nel contesto azzeccatissima, di Alberto Sordi che fa il gesto dell’ ‘ombrello’ ai lavoratori nel film ‘I Vitelloni’, comparsa su un articolo(LeggiOggi.it) dedicato alla riforma del lavoro all’indomani dell’annuncio-spot delle nuove misure da parte del governo, riassumeva plasticamente, senza tanti giri di parole, l’impressione che aveva destato in molti la prima lettura delle abbozzate linee generali del jobs act renziano. L’impressione era che, al di là dello zuccherino astutamente promesso da Renzi –l’annunciato regalo in danaro (10 ml.di di euro, che molti peraltro dubitavano e dubitano possano essere veramente reperiti)- ai lavoratori si preparava poi qualche amaro boccone, indispensabile anche per accontentare la scalpitante Confindustria che quel regalo avrebbe voluto tutto per sé. ‘Bene 80 euro, ma stavolta niente trucchi’ dicevano (l’Unità, 14.3.2014) i lavoratori destinatari di quel gesto foriero di … pioggia ad essi rivolto dall’Albertone nazionale ed ora dal Matteone nazionale. Ed in effetti, col passare dei giorni, dei comunicati, delle esternazioni renziane e poi della pubblicazione ufficiale del D.L. 34/2014, i timori dei lavoratori hanno finito per trovare conferma, e quella che era solo un’impressione si è trasformata in cruda certezza: il trucco, c’è! Si è oramai capito che, in una sorta di gioco delle tre carte, quei soldi promessi ai lavoratori –se mai saranno dati- saranno poi sottratti alle loro stesse tasche da qualche altra parte, ad es. colpendo le pensioni (si parla di quelle sopra i 2.000 euro, ma probabilmente anche più basse), tagliando migliaia di posti di lavoro colpiti dalla scure della spending review (vedasi taglio di 85 mila lavoratori nel pubblico impiego, di 60 mila nella polizia di stato, ecc.), abolendo detrazioni fiscali (vedasi detrazione per coniuge a carico, ecc.), comprimendo/sopprimendo ancora i diritti dei lavoratori (vedasi riforma del rapporto di lavoro a tempo determinato, dell’apprendistato, ecc.). Senza dire che, come dimostrato da più attenti analisti (vedasi Visco e Paladini, Lavoce.info), l’ipotesi di restituire ai lavoratori quegli 80 euro tramite l’innalzamento della detrazione Irpef per lavoro dipendente porterebbe a risultati iniqui e paradossali (escludendo, tra l’altro, dal beneficio proprio i redditi più bassi). Del resto, si era capito da tempo che gli inglesismi tanto amati dai nostri politici, sono solo furbeschi eufemismi –o, se vogliamo, trucchi- per nascondere verità che in italiano hanno nomi impronunciabili. Come Monti si era inventato la ‘spending review’ per non parlare –come si diceva una volta- di ‘manovra finanziaria’, così Renzi si è inventato il ‘jobs act’ per non parlare –come si diceva una volta- di ‘articolo 18’. Ma, alla fine, la ‘fissa’ di questo governo, come di quello di Monti e nel solco liberista tracciato già prima dal governo Berlusconi (leggasi ‘fissa’ di Sacconi), alla fine rimane –ed ecco il vero trucco, nascosto dai pudici paraventi di quegli inglesismi- l’art. 18, o, per dirla con altre parole, la libertà di licenziamento: e con esso, inevitabilmente -perché le due ‘fisse’ vengono comunemente (e subdolamente) propugnate in maniera inscindibile- quella del contratto unico a tempo indeterminato liberamente risolvibile (idea generalmente –ma erroneamente- attribuita ad Ichino, che ne ha fatto poi il suo cavallo di battaglia, ma la cui paternità è in realtà di Biagi, che per primo la sostenne). Ed infatti che cos’è, se non un modo di svuotare completamente l’art. 18 (rectius, quel poco che ne è rimasto dopo la riforma Fornero) ed eliminare ogni vincolo al licenziamento, questo contratto di lavoro a tempo determinato a-causale e reiteratamente rinnovabile in un periodo lunghissimo (tre anni e anche più, stante che il limite triennale si riferisce al rapporto di lavoro col medesimo datore, ma nulla vieta che quel lavoratore sia poi assunto da altro datore ancora per tre anni, e così via di tre anni in tre anni), o anche questo contratto di apprendistato senza obbligo di stabilizzazione, che, con la nuova riforma, diventeranno sicuramente la forma prevalente, per non dire unica, di rapporto di lavoro (non tutelato) in sostituzione di quella del lavoro a tempo indeterminato (tutelato) che, per principio e per legge –vedasi Dir. 1999/70/CE- dovrebbe essere la forma ordinaria di lavoro. E che cos’è, se non proprio questo, il predetto contratto unico a tempo indeterminato, che si vorrebbe introdurre, mero furbesco eufemismo camuffato di favor lavoratoris (il quale lavoratore, a dire di Biagi e Ichino, per questa via sarebbe premiato!) che in realtà vorrebbe dire cancellazione definitiva dell’art. 18 (attesa la libera risolvibilità del rapporto in qualsiasi momento). Indubbiamente, la semplificazione del quadro legislativo in materia di lavoro perseguita da Renzi come obbiettivo della riforma affidata al jobs act è condizione necessaria –anche se non sufficiente- di un percorso di riforma, ma non ci si può illudere di raggiungere questo obbiettivo con una mera operazione di maquillage delle oltre quaranta forme di rapporto di lavoro oggi previste, nate e proliferate colla falsa promessa della crescita dell’occupazione. Alla luce anche di quelli che sono i risultati –l’occupazione non solo non è cresciuta, ma è addirittura diminuita in misura consistente- appare oramai indispensabile un intervento di rifacimento radicale che parta dalle fondamenta per liberarle dalle inutili e dannose sovrastrutture che nel tempo le hanno nascoste e massacrate. Per esser chiari, la vera, indispensabile, semplificazione che Renzi dovrebbe fare è il ritorno al sistema duale del rapporto di lavoro -autonomo o subordinato- eliminando gli ibridi (le forme di c.d. lavoro parasubordinato), meri escamotages elusivi inventati dalla fervida fantasia dei nostri ‘moderni’ ed uniformati giuslavoristi ma in realtà inesistenti ‘in natura’ (giuridica), anzi contro natura. Non ci sono vie di mezzo, non esiste ‘in natura’ un tertium genus di lavoro che non sia né autonomo né subordinato (la pretesa legittimazione della parasubordinazione non può desumersi da una non pertinente norma meramente processuale, l’abusato art. 409, 3° c., cpc, forzosamente piegata ad una interpretazione che non regge ad un’analisi critica obbiettiva), il lavoro o è l’uno o è l’altro. E si sa che quando si cerca di coartare o, peggio, violentare la natura, questa si ribella. Infatti, tutti i problemi (e le vertenze nei tribunali) che nascono in sede di interpretazione e applicazione delle norme in materia di lavoro c.d. parasubordinato, come tutte le difficoltà per definire le medesime (si veda da ultimo la riforma Fornero, vero monumento … alla chiarezza e alla ragione!) nascono proprio di qui, perché si è finito per creare una selva mostruosa ed inestricabile, in cui è difficile penetrare anche per un avvocato: figuriamoci per un imprenditore, il quale finisce per abbandonare –come dargli torto?- qualsiasi, pur volenteroso e ottimistico, progetto di nuove assunzioni. Bisogna allora avere il coraggio di cancellare dal dizionario gius-lavoristico il monstrum del lavoro para-subordinato o para-autonomo che sia e del lavoro fittiziamente autonomo (co.co.pro, contratti di associazione in partecipazione, false partite Iva, ecc.), dietro al quale si nasconde un esercito di lavoratori sfruttati e senza tutele, malpagati e privati a vita di ogni certezza sul proprio futuro (compresa quella di poter raggiungere una pensione, nonostante i non irrilevanti contributi previdenziali versati). Quanto poi, in particolare, alla riforma dell’apprendistato e del rapporto a tempo determinato, ben poca cosa, rispetto alle aspettative, sembra quella delineata dal jobs act renziano, atteso che questo non scioglie –anzi aggrava- i nodi e le problematiche lasciate aperte dalla riforma Fornero. Questa doveva –dicevano- promuovere la ‘buona occupazione’, in particolare quella dei giovani, e combattere la piaga del precariato, ma ha prodotto solo disoccupazione e, al massimo, ‘cattiva’ occupazione, dovuta anche all’abuso (‘non ne abusate’, raccomandava agli imprenditori l’ineffabile Fornero!) di espedienti legalizzati che consentono lo sfruttamento a basso costo del lavoro, condannando i giovani al precariato a vita. Ma è questa buona occupazione? Giova ciò allo sviluppo economico e sociale del Paese? E’ grazie alla liberalizzazione illimitata del lavoro a tempo determinato che si può creare occupazione e combattere la piaga del precariato? Risponde a tale obbiettivo, e prima ancora ad una qualche giusta e giustificabile funzione, un contratto di apprendistato che consenta che chi ha già fatto lunghi studi (più lunghi che in qualsiasi altro paese), e magari, a 29 anni, laureato, super-specializzato e fornito anche di pregressa esperienza di lavoro, possa essere considerato, ancora e per ben tre anni, una specie di sotto-lavoratore di serie B, in fatto occupato in attività identiche a quelle di qualsiasi altro lavoratore invece che in attività formative (l’obbligo della formazione è stato in sostanza abolito) eppur sottopagato (fino a due livelli contrattuali inferiori di quello che spetterebbe) e con minori diritti, se non addirittura senza diritti (al termine di un sì lungo periodo non ha nemmeno quello della stabilizzazione e della corresponsione della piena retribuzione contrattuale)? A questi interrogativi il jobs act non dà risposta, lasciando ben poche speranze in una effettiva volontà di procedere a riforme che non siano fatte solo di parole e di illusori espedienti, déjà vu e già falliti quando non addirittura già sanzionati: infatti, l’Italia è già stata sottoposta a procedura di infrazione dalla Commissione UE per la disciplina del contratto di formazione e lavoro e per quella del lavoro a tempo determinato. Stupisce, in particolare, che si continui ad ignorare -da parte del Governo, oltre che dagli esperti o presunti tali di diritto del lavoro, sindacalisti, ecc.- che, a norma della Dir. CE 1999/70, il contratto a termine deve obbligatoriamente essere giustificato da ‘condizioni oggettive’ (causa) e devono essere evitati abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti/rapporti a tempo determinato. E stupisce anche che Renzi ignori che, a norma della stessa direttiva, per prevenire detti abusi, gli stati membri, ‘previa consultazione delle parti sociali e/o le stesse’, devono introdurre misure relative alle ragioni obbiettive per la giustificazione del rinnovo di detti contratti/rapporti, alla durata massima dei contratti/rapporti successivi e al numero dei rinnovi, sicché egli non può sbrigativamente liquidare la questione svicolando dietro un trito ‘sindacato chi?’, ‘i sindacati non mi interessano’ e ‘se ne facciano una ragione’. Se questo è il quadro che si apre con la nuova riforma, si può già prevedere che, ben lungi dal deflazionare il contenzioso giudiziario come illusoriamente afferma il ministro Poletti, essa non potrà sfuggire al vaglio della Commissione U.E, della Corte di Giustizia e dei tribunali, davanti ai quali accenderà sicuramente nuovo contenzioso. E Allora, non rimane che un invito: ‘Per favore cambiate quel decreto’, come implora Tito Boeri (Lavoce.info), il quale mette in guardia anche sul pericolo di un selvaggio aumento della precarizzazione e della riduzione dei diritti dei lavoratori che deriverà, come dimostra la negativa esperienza spagnola dei ‘contractos temporales’, dall’annunciata riforma del contratto a tempo determinato; ed una riflessione, che già due anni orsono proponevo (testualmente): ‘Dovrebbe far riflettere anche un’altra notizia, pure questa degli ultimi giorni, secondo cui in Spagna la disoccupazione è passata al 24%, dato record che supera il precedente record del 22%. Val la pena di annotare come in quel Paese siano state già da tempo abrogate norme simili a quelle del nostro art. 18 e recentemente addirittura ancor più liberalizzati i licenziamenti: e dire, che secondo l’illuminata analisi dei soliti prof economisti -vedasi ad esempio il duo massmediatico Alasina e Giavazzi, su Corriere della Sera di qualche mese fà- l’esperienza della Spagna sarebbe la prova scientifica che eliminando l’art. 18 l’occupazione cresce!!!!

  3. Simone Emili scrive:
    Scritto il 29-3-2014 alle ore 00:53

    Secondo me il Jobs Act ha colpito nei punti sbagliati. Invece che deregolamentare in questo modo il contratto a termine, avrebbe dovuto rendere più appetibile il contratto a tempo indeterminato togliendo l’osceno “pedaggio” di 480 euro all’anno per 3 anni che ha reso i licenziamenti più onerosi e quindi difficili che in passato, soprattutto per aziende piccole con problemi di liquidità.
    Riguardo all’apprendistato, togliere il piano formativo serve a poco, se tanto l’incombenza di registrare la formazione rimane. Anzi, una forma di piano formativo dovrà comunque essere redatta, se si vorrà registrare la formazione in modo abbastanza corretto e non contestabile dagli ispettori. Per me il vero volano per l’apprendistato sarebbe togliere la sanzione del 100% delle agevolazioni, sostituendola con una al 10, massimo 20%. Un apprendistato disconosciuto dopo 3 anni è punito praticamente come il lavoro nero, il che è assurdo e scoraggia questo tipo di contratto. E tutto solo per il fatto di non segnare una formazione che, comunque, di fatto c’è, almeno quando l’apprendista viene confermato. Infatti, se l’apprendista lo tengo, vuol dire che ha imparato a fare il suo lavoro, e quindi ha avuto la giusta formazione.

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